Does Non-invasive Ventilation Have a Role in Chest Trauma Patients? Hua A et al. Annals of Emergency Medicine 2014; in press, online first

Ecco un’altra delle “Systematic Review Snapshot” di Annals of Emergency Medicine nelle quali alcune questioni particolarmente controverse in Medicina d’Urgenza sono affrontate secondo lo schema: specifica domanda – analisi e sintesi della letteratura allo stato dell’arte – risposta netta (NB: sempre nella stessa “collana” è compreso l’articolo sotto citato sull’impiego degli antibiotici nella diverticolite non complicata).
Se ne conclude qui che la ventilazione non-invasiva (NIV) nel trauma toracico sia in grado di ridurre il ricorso all’intubazione tracheale e la mortalità. Sono stati contemplati nell’analisi 10 studi (per un totale di 368 pazienti), 5 dei quali (per 219 casi) presentano i dati sulla mortalità. Il gruppo NIV ha mostrato un tasso di mortalità del 3.0% rispetto al 22.9% del gruppo di controllo non-NIV (rappresentato sia dai pazienti intubati che da quelli trattati con ossigenoterapia convenzionale).
La NIV si è inoltre associata ad un inferiore tasso di intubazione, una riduzione complessiva delle complicanze, ed un minore tempo di permanenza in Unità di Terapia Intensiva. 
L’efficacia della NIV pare indipendente dalla modalità prescelta (pressione positiva continua versus doppio livello di pressione positiva), con miglioramento degli scambi gassosi e del livello di ossigenazione, e senza che si sia riscontrato un aumento di incidenza di pneumotorace.
Tra i limiti evidenziati, alcuni vanno di certo sottolineati: in nessuno degli studi è stabilito un criterio oggettivo per intraprendere la NIV o meno; è naturale che i pazienti con rilevante alterazione del sensorio o un grado più severo di insufficienza respiratoria siano stati esclusi dall’opportunità di intraprendere la NIV, il che significa che i casi intubati sin dall’inizio rappresentano un sottogruppo a maggiore criticità con prevedibile maggiore tasso di mortalità.
Alcune questioni restano aperte per l’utilizzo routinario della NIV nel trauma toracico, in particolare la necessità di definire meglio i criteri di selezione e la tempistica di intervento, così come i fattori predittivi di successo e fallimento.

 

Lactate Clearance for Assessing Response to Resuscitation in Severe Sepsis. Jones AE. Academic Emergency Medicine 2013; 20(8): 844-847


Abbiamo imparato che, nell’ambito della sepsi severa, la terapia precoce di “risuscitazione” con uno specifico obiettivo “quantitativo” è in grado di ridurre la mortalità. La Surviving Sepsis Campaign (NEJM 2001; 345: 1368) raccomanda in tal senso di fare riferimento a pressione venosa centrale, pressione arteriosa media, escrezione urinaria e saturazione venosa centrale in ossigeno (ScvO2) come obiettivi oggettivabili del trattamento. Numerosi studi hanno però poi dimostrato come nel Dipartimento di Emergenza vi siano diversi ostacoli all’applicazione e alla diffusione del protocollo di risuscitazione quantitativa nello shock settico; di conseguenza da allora molti autori hanno cercato di identificare altri criteri ed obiettivi meno invasivi come indicatori surrogati dell’adeguatezza della risuscitazione stessa.
Questo articolo affronta il rapporto tra lattati e ScvO2, ed in particolare i pregi e difetti dell’utilizzo dei primi in sostituzione della seconda.
Il valore iniziale dei lattati nella sepsi possiede un significato prognostico importante, correlando con un esito infausto; allo stesso modo la clearance precoce dei lattati (cioè una riduzione del 10-20% a circa 2 ore dall’inizio del trattamento) è associata a buon esito in termini di minore mortalità. È quindi possibile considerare la clearance dei lattati come marcatore surrogato dell’adeguatezza della risuscitazione nella sepsi severa, ed adottarla come obiettivo della risuscitazione stessa.
Anche sul piano fisiopatologico l’andamento dei lattati pare preferibile rispetto alle variabili derivate relative alla ScvO2. I lattati, ed i loro parametri derivati, sono più direttamente correlati all’omeostasi complessiva dell’organismo e ai suoi processi metabolici, la clearance dei lattati è strettamente associata all’andamento dei marcatori di infiammazione e di disfunzione d’organo, e in conclusione è in grado di fornire indicazioni più significative riguardo all’adeguatezza del processo di risuscitazione. Al contrario la ScvO2 garantisce indicazioni per lo più limitate al rapporto tra domanda e offerta di O2. Inoltre l’iperossia venosa (ScvO2 >89%) si riscontra in più di un terzo dei casi di shock settico, è associata ad un aumento della mortalità tanto da risultare prognosticamente peggiore rispetto all’ipossia venosa (ScvO2 <70%). In sostanza, fornisce risultati migliori il fare riferimento ad entrambi, sia ScvO2 che lattati, ma dovendo scegliere uno dei due, la clearance dei lattati si fa nettamente preferire. Non vanno però dimenticati alcuni limiti: il 20-30% dei soggetti con shock settico si presenta con lattati <2 mmol/l, ed in questi casi la valutazione della clearance dei lattati perde di validità e significato; inoltre la misurazione dei lattati può essere condizionata da numerosi fattori di non infrequente riscontro quali l’utilizzo del ringer lattato, la presenza di cirrosi epatica, l’uso di metformina, il ricorso a trasfusioni massive di globuli rossi concentrati.

Are Antibiotics Required for the Treatment of Uncomplicated Diverticulitis? Smolarz CM et al. Annals of Emergency Medicine 2014; 63: 52

Sintetica review che solleva una questione tuttora irrisolta. Partiamo dalla conclusione: dati estremamente limitati (nell’analisi finale della letteratura è stato incluso un solo trial clinico randomizzato degno di nota) indicano come il ricorso agli antibiotici non sia superiore al placebo nel trattamento della diverticolite non complicata. Il problema è assolutamente rilevante: la malattia diverticolare riguarda un terzo dei soggetti di età superiore ai 60 anni, ed oltre la metà degli individui di oltre 85 anni. Spesso nella diverticolite acuta non complicata si ricorre alla combinazione orale tra ciprofloxacina e metronidazolo; i casi più severi sono usualmente trattati in regime di ricovero ospedaliero, con antibiotici ev, digiuno e provvedimenti chirurgici in caso di ascessualizzazione o perforazione.
Come detto, i dati sono troppo scarsi perché ne scaturisca una reale raccomandazione; il consiglio degli autori è che, in mancanza di indicazioni specifiche, ognuno proceda seguendo il proprio giudizio clinico, l’esperienza, ed i protocolli e gli standard condivisi localmente. Riassunto, recensione e commento a cura di Rodolfo Ferrari. Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso. Policlinico Sant’Orsola – Malpighi. Azienda Ospedaliero Universitaria di Bologna.


Venous Thromboembolism in Patients With Chronic Obstructive  Pulmonary Disease. Piazza G, Goldhaber SZ, Kroll A, Goldberg RJ, Emery C, Spencer FA. Am J Med 2012; 125: 1010-8

Studio su 2.488 pazienti con tromboembolismo venoso, di cui 484 (il 19,5%) avevano diagnosi di BPCO. Tra i pazienti con malattia polmonare cronica ostruttiva si è avuta una maggiore mortalità sia in ospedale (con una percentuale di decessi del 6,8% rispetto al 4%) e a 30 gg dalla diagnosi di tromboembolismo venoso (12,6% dei soggetti con BPCO, doppio rispetto al 6,5% dei soggetti di controllo). Gli autori concludono che nei pazienti con BPCO il tromboembolismo ha un decorso più grave rispetto agli altri pazienti, possibilemente legato alla prolungata immobilità dei soggetti con BPCO.


C-reactive Protein, Fibrinogen and Cardiovascular Disease Prediction. Kaptoge S, Di Angelantonio E, Pennels E et al.; Emerging Risk Factors Collaboration. N Engl J Med 2012 Oct 4; 367(14): 1310-20 

Studio di analisi su 52 studi prospettici, relativi a 246.669 soggetti senza pregresse malattie cardiovascolari, per verificare il valore di PCR e fibrinogeno in aggiunta ai fattori di rischio tradizionali, ai fini della predizione di rischio cardiovascolare. Gli autori concludono che includendo anche PCR e del fibrinogeno nell’assessment dei soggetti a rischio su 100.000 soggetti con età >40 aa ne verrebbero identificati ulteriori 15.000 a rischio intermedio; se a questi soggetti venisse iniziata una terapia con statina come indicano le linee guida ci si dovrebbe attendere il risparmio di un evento ogni 400-500 soggetti ogni 10 aa.