Spironolactone for Heart Failure with Preserved Ejection Fraction. Is adrenaline safe and effective as a treatment for out of hospital cardiac arrest? Radiation Risks From Cardiovascular Imaging Tests. Top 10 mobile apps in Emergency Medicine

 
Background

Mineralocorticoid-receptor antagonists improve the prognosis for patients with heart failure and a reduced left ventricular ejection fraction. We evaluated the effects of spironolactone in patients with heart failure and a preserved left ventricular ejection fraction.

Methods

In this randomized, double-blind trial, we assigned 3445 patients with symptomatic heart failure and a left ventricular ejection fraction of 45% or more to receive either spironolactone (15 to 45 mg daily) or placebo. The primary outcome was a composite of death from cardiovascular causes, aborted cardiac arrest or hospitalization for the management of heart failure.

 

Results

With a mean follow-up of 3.3 years, the primary outcome occurred in 320 of 1722 patients in the spironolactone group (18.6%) and 351 of 1723 patients in the placebo group (20.4%) (hazard ratio, 0.89; 95% confidence interval [CI], 0.77 to 1.04; P = 0.14). Of the components of the primary outcome, only hospitalization for heart failure had a significantly lower incidence in the spironolactone group than in the placebo group (206 patients [12.0%] vs. 245 patients [14.2%]; hazard ratio, 0.83; 95% CI, 0.69 to 0.99, P = 0.04). Neither total deaths nor hospitalizations for any reason were significantly reduced by spironolactone. Treatment with spironolactone was associated with increased serum creatinine levels and a doubling of the rate of hyperkalemia (18.7%, vs. 9.1% in the placebo group), but reduced hypokalemia. With frequent monitoring, there were no significant differences in the incidence of serious adverse events, a serum creatinine level of 3.0 mg per deciliter (265 μmol per liter) or higher, or dialysis.

Conclusions

In patients with heart failure and a preserved ejection fraction, treatment with spironolactone did not significantly reduce the incidence of the primary composite outcome of death from cardiovascular causes, aborted cardiac arrest or hospitalization for the management of heart failure.

Riassunto, recensione e commento a cura di Mauro Fallani. Responsabile UOS Medicina d’Urgenza. Ospedale “Ceccarini” di Riccione, ASL di Rimini.

 

Is adrenaline safe and effective as a treatment for out of hospital cardiac arrest? Gavin D Perkins, et al. British Medical Journal 2014;348:g2435
Nella rubrica “Uncertainties Page” del BMJ viene affrontato il tema del tuttora controverso ruolo dell’adrenalina nell’arresto cardiaco (CA) extra-ospedaliero.
L’International Liaison Committe for Resuscitation Consensus on Science and Treatment Recommendations nel 2010 ha concluso che l’evidenza disponibile in letteratura indichi come i vasopressori (adrenalina e vasopressina) siano in grado di migliorare il tasso di ripristino della circolazione spontanea (ROSC) e la sopravvivenza a breve termine, con evidenza altresì insufficiente per dimostrare un miglioramento nella sopravvivenza alla dimissione o nell’esito neurologico, ma, anzi, con dati suggestivi per ritenere che possano peggiorare questi outcomes.
Il meccanismo d’azione sul quale si fonda l’indicazione all’utilizzo dell’adrenalina sta nella sua capacità di stimolare i recettori α2 nella muscolatura liscia dei vasi sanguigni, inducendo vasocostrizione, aumentando la pressione aortica diastolica e con essa la pressione di perfusione coronarica e migliorando così la sopravvivenza a breve termine. Altri studi sperimentali hanno invece documentato come essa sia in grado di alterare il flusso sanguigno
cerebrale sul versante sia micro- che macro-vascolare, aumentare il tasso di aritmie ventricolari ed anche quello di disfunzione miocardica successiva al ROSC dopo CA.
Diverse metanalisi e revisioni sistematiche sottolineano come l’adrenalina sia associata ad un miglioramento della sopravvivenza a breve termine in confronto al placebo, in assenza di effetto sulla sopravvivenza a lungo termine. Alcuni studi osservazionali suggeriscono però che l’adrenalina si associ a ridotta sopravvivenza a lungo termine. La rilettura di alcuni lavori pubblicati in letteratura, inoltre, evidenzia nei casi trattati con adrenalina un più elevato
tasso di ricovero in ospedale, ma, alla dimissione, un peggiore tasso sia di sopravvivenza che di integrità della condizione neurologica.
I dati a tutt’oggi disponibili da trials clinici randomizzati non consentono di trarre conclusioni definitive né sull’efficacia né sulla sicurezza dell’adrenalina a lungo termine; non può essere dimenticato, altresì, come negli ultimi tre decenni, nei quali questi studi sono stati effettuati, sia le caratteristiche dei Pazienti che le modalità di trattamento durante CA e nel periodo post-rianimatorio siano drasticamente mutati, rendendo l’attuale interpretazione dei dati
estremamente difficile, così da non potere raccomandare una chiara ed univoca linea di comportamento.

Radiation Risks From Cardiovascular Imaging Tests. Felix G Meinel, et al. Circulation 2014;130:442

Circulation pubblica questo “Clinician Update” in cui gli Autori rispondono (in modo, direi, piuttosto “deciso”) ad alcuni lavori in ambito pediatrico (Lancet 2012;380:499 e BMJ 2013;346:f2360), che in letteratura hanno recentemente riacceso la discussione sul rapporto tra benefici e rischi dell’utilizzo delle radiazioni nelle procedure di diagnostica per immagini.
Negli Stati Uniti d’America (USA) il 38% delle femmine ed il 44% dei maschi sviluppano un cancro nell’arco della propria esistenza. Ogni anno negli USA si è esposti in natura a radiazioni per una dose di circa 3 mSv. Ad oggi non vi è evidenza di una chiara associazione diretta tra radiazioni utilizzate in medicina ed induzione del cancro nella popolazione adulta.
Usualmente nelle procedure mediche diagnostiche si ricorre ad un’esposizione a dosi inferiori ai 100 mSv ed è effettivamente difficile estrapolare un chiaro profilo di rischio al riguardo. È necessario infatti, prima di tutto, partire dall’ipotesi che il rischio di cancro aumenta in modo lineare con l’aumento della dose di radiazioni, ma non vi è certezza né che questo modello sappia riflettere il reale effetto biologico dei bassi livelli di radiazioni, né che
possa essere predittivo per il rischio di conseguente sviluppo di cancro. In ogni caso vi si ricorre semplicemente perché sino ad ora non vi è nulla di più ragionevole, in senso conservativo, a cui affidarsi (è lo stesso principio sul quale ci si regola nella politica di protezione dalle radiazioni).
Per le diverse procedure di diagnostica radiologica utilizzate nella consueta pratica clinica in ambito cardiovascolare, negli ultimi anni si è assistito ad una riduzione della dose media dai precedenti 10-22 mSv agli attuali 2-5. Spesso i Pazienti eseguono diversi e ripetuti test e non è semplice stimare lo specifico rischio per il singolo individuo. Comunemente i test sono condotti su persone di età > 50 anni, con danno da radiazioni inferiore rispetto alla popolazione più giovane o pediatrica (per l’inferiore suscettibilità dei tessuti e la minore aspettativa di vita con minore tempo a disposizione perché si manifesti il cancro).
Il rischio derivante dalle radiazioni deve essere soppesato e bilanciato in riferimento al rischio di mancare o ritardare una valutazione o un trattamento, a seconda della severità ed urgenza dello specifico quadro clinico per cui l’indagine radiologica sarebbe più o meno appropriatamente indicata, con specifico obiettivo sia diagnostico che terapeutico. Spesso si tratta di valutare un rischio a lungo termine a fronte di una condizione di vera emergenza-
urgenza.
L’American Association of Physicists in Medicine considera il rischio connesso ad indagini singole a dose < 50 mSv e multiple con dose < 100 mSv troppo ridotto perché si possa definire epidemiologicamente e, di conseguenza, potenzialmente inesistente.
Gli Autori, il cui punto di vista è piuttosto chiaro, si spingono anche a paragonare l’oggetto dell’articolo con il rischio che ognuno ha, nel corso della propria vita, di morire annegato o di perdere la vita in un incidente stradale. Concludono dunque che, date le incertezze al riguardo, è ragionevole operare tenendo in seria considerazione il rischio derivante dall’uso delle radiazioni, considerato comunque basso; la raccomandazione è di ridurre al
minimo possibile l’esposizione a radiazioni, senza compromettere l’ottenimento delle informazioni necessarie.

Top 10 mobile apps in Emergency Medicine. Michelle Lin, et al. Emergency Medicine Journal 2014;31:432

Tra le tante nuove applicazioni per telefono mobile che possono risultare utili ai Medici d’Urgenza nel lavoro di ogni giorno, gli Autori hanno revisionato e selezionato le 10, disponibili nell’Apple App Store, ritenute più interessanti riguardo alla qualità del design dell’interfaccia e dei contenuti.
Tra queste alcune sono gratuite, ad esempio:
• Evernote (disponibile sia in iOS che Android; necessario accesso wireless per la versione gratuita), non esclusivamente dedicato alla Medicina d’Urgenza, comprende la possibilità di crearsi un proprio catalogo personalizzato che raccolga quanto si preferisce tra linee guida, articoli in pdf, ecc.;
• Eyemd (iOS) offre il test di acuità visiva con la “Snellen eye chart”, portandolo dalla parete dell’ambulatorio Oculistico direttamente al Paziente;
• Micromedex Drug Information e/o BNF/cBNF (disponibili rispettivamente negli Stati Uniti d’America e nel Regno Unito, per iOS ed Android) raccolgono le informazioni sui farmaci dei rispettivi prontuari n visitare i pazienti è un atto di per sé in grado di “tenere acceso” il cervello del Medico, rappresentando la chiave per la diagnosi differenziale in un’infinità di casi;
• è necessario fare i conti con i tagli nella spesa per la Sanità e la drastica riduzione delle risorse disponibili (in termini sia di personale che di strumentazione) a fronte dell’aumento delle prestazioni, soprattutto nei Dipartimenti d’Emergenza;
• la pratica Medica negli ultimi decenni è stata bersagliata, e dunque inevitabilmente condizionata, dalla politica dei reclami e delle rivalse medico-legali. Ciò ha portato ad un aumento esponenziale di esami alla ricerca di diagnosi da effettuare ad ogni costo: questo si è rivelato non solo dispendioso, ma ha anche rappresentato per il Medico una perdita di autonomia decisionale.
L’Autore conclude che, per coloro che intendano essere Medici, l’esame obiettivo è un elemento ancora assolutamente vivo e vegeto. Hypoxia, haemorrage and hypotension: the interface between emergency medicine and intensive care medicine. Bernard A Foëx. Emergency Medicine Journal 2014;31:513
Articolo tratto da una presentazione fatta dall’Autore alla College of Emergency Medicine Scientific Conference nel Settembre 2013. L’Autore, in modo assolutamente personale, e a mio parere a tratti anche estremamente discutibile, affronta tre degli eventi critici con impatto significativo sul Dipartimento di Emergenza (ED), che rappresentano un continuum tra Medicina d’Urgenza e Terapia Intensiva.  Primo aspetto affrontato è l’ipossiemia. L’Autore esordisce descrivendo una “scaletta” di interventi da attuare nel ED: dapprima l’ossigeno-terapia tramite maschera facciale, poi, in caso di insuccesso nel correggere la situazione, transizione alla pressione positiva continua applicata alle vie aeree (CPAP). In seguito, in caso di ulteriore insuccesso, intubazione e ventilazione meccanica invasiva. Non mi soffermo oltre al riguardo (NdR: è pleonastico ricordare che le mie sono per lo più “recensioni”, riguardanti articoli che ritengo interessanti e stimolanti, indipendentemente dal fatto che rispecchino le mie convinzioni o viceversa vi si contrappongano, quando si sia nell’ambito dell’opinabile), ma questo approccio mi pare assolutamente superficiale, inadeguato e pericoloso perché potenzialmente dannoso e mi trova quindi in profondo disaccordo. Dopo questo inizio, l’Autore menziona ed affronta condizioni ed aspetti squisitamente intensivistici, quali il danno polmonare indotto dal ventilatore, la ventilazione ad alta frequenza di oscillazione (provvedimento che ad oggi, in letteratura, risulta non essere in grado di incidere significativamente sulla mortalità), e la ventilazione a Paziente in posizione prona per l’ipossiemia severa.
Secondo punto è quello dell’emorragia. Viene analizzato dapprima il ruolo dell’acido tranexamico, che negli anni ha mostrato capacità di ridurre sia la mortalità in caso di trauma, sia il ricorso alle trasfusioni di globuli rossi in ambito chirurgico. In seguito viene affrontato il dilemma relativo al ricorso alle trasfusioni di sangue in corso di emorragia digestiva “alta” (risultati per lo più da casi di ulcera peptica e varici), per la quale una strategia “restrittiva”
(soglia di emoglobina 7.0 g/dl) si è dimostrata, in letteratura, essere in grado di ridurre la mortalità a 45 giorni, la durata del ricovero, le reazioni trasfusionali avverse e gli eventi avversi in ambito cardio-vascolare rispetto alla strategia più “liberale” (9.0 g/dl). Va sottolineato, comunque, che i dati ora riportati sulla strategia restrittiva sono stati ottenuti da casistiche di pazienti senza sanguinamento in atto, né sintomi legati all’anemizzazione.
Terzo argomento è quello dell’ipotensione. Controversia nota è quella riguardante la scelta dei fluidi, tra cristalloidi e colloidi: a seguito di un vivacissimo dibattito al riguardo, alcune recenti revisioni della letteratura hanno dimostrato come i colloidi non correlassero con aumento (né riduzione) della mortalità nella resuscitazione volemica dei pazienti critici, ma aumentassero il rischio di danno renale, di necessità di ricorrere alla dialisi o alle trasfusioni di sangue ed in generale di eventi avversi. Il ricorso alla contropulsazione aortica in corso di infarto miocardico acuto complicato da shock cardiogeno (come provvedimento successivo al ricorso a fluidi, inotropi e/o vasopressori) pare in grado di ridurre la mortalità solo nei casi precedentemente trattati con sola trombolisi, mentre il risultato sarebbe diametralmente opposto nei soggetti trattati con angioplastica percutanea primaria.
Altri aspetti degni di menzione, e tuttora teatro di intenso dibattito, nell’ambito della gestione nel ED del Paziente critico, sono il ruolo degli specialisti e la composizione dello staff (soprattutto nell’assetto organizzativo della turnistica diurna e notturna e dei fine settimana) e la fiducia implicita che si nutre usualmente verso approcci sempre più tecnologicamente avanzati, anche quando non suffragati da sufficienti evidenze.

Riassunto, recensione e commento a cura di Rodolfo Ferrari. Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso. Policlinico Sant’Orsola – Malpighi. Azienda Ospedaliero Universitaria di Bologna.